(FQblog) – La festa della Polizia di Stato di quest’anno sarà una festa particolare, perché il 10 aprile si celebreranno anche i quarant’anni della riforma del 1981. Ma va ricordato che cinque anni prima fu una circolare del ministro Francesco Cossiga a porre le basi della modernizzazione, autorizzando gli agenti a riunirsi e a discutere dei loro problemi lavorativi.
Per un poliziotto oggi sarebbe impensabile finire per giorni in una cella punitiva per aver portato un quotidiano in caserma, come accadde nientemeno che a Michele Placido negli anni Sessanta. Nel 1965 l’attore pugliese – che racconta l’episodio nella prefazione al libro Angeli ribelli. La storia di chi cambiò la Storia di Giuseppe Sergio Balsamà e Mario Ciotti (A.E.&P., 2000) – era uno dei tanti ragazzi “proletari” del Sud che, pieni di speranze e anche di alti ideali, si arruolavano nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Lasciavano la loro terra solare e le loro famiglie, per ritrovarsi da un giorno all’altro in luoghi “extraterritoriali” dove era vietato pensare e parlare.
L’addestramento militare – fatto di urla belluine degli istruttori, di ginocchia rotte dalle marce infinite e di studio del Diritto nei ritagli di tempo – rendevano la polizia un corpo “separato” che rispondeva solamente a esigenze repressive inconciliabili con uno Stato democratico. Il fine – come spiega Franco Ferrarotti in un articolo del 1976 – era quello di “trasformare un giovane in una macchina ubbidiente, carica di aggressività, di diffidenza e di risentimento […] contro quella società e quei cittadini che deve salvaguardare”.
Eppure, quella inaccettabile contraddizione fu colta negli anni Settanta da tanti poliziotti che cominciarono a mobilitarsi e a lottare per ottenere prima di tutto il diritto di pensare e di esprimersi liberamente. E si fece strada tra di loro l’idea, condivisa anche dalle forze progressiste del Paese, che fosse giunta l’ora di dare alla polizia un’organizzazione nuova, più moderna, più democratica, non militare, più snella, più efficiente. Cgil, Cisl e Uil promossero dal canto loro assemblee e manifestazioni in tutta Italia per la difesa dei diritti dei poliziotti. Riecheggiavano sullo sfondo le parole di Giuseppe Di Vittorio: “I poliziotti sono figli di lavoratori, anch’essi lavoratori che provengono soprattutto dalle campagne e dalla disoccupazione del Sud”.
Contro il “Movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza” scattò ovviamente la dura reazione dei vertici del Corpo, fatta di arresti, denunce, trasferimenti punitivi e vessazioni di ogni genere. Una barbarie che venne fermata nel 1976 dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga, che con una circolare riconobbe finalmente ai poliziotti il diritto di discutere e di riunirsi. La “santa rabbia dei poliziotti” non poteva più restare inascoltata.
In un periodo storico delicato e caratterizzato dalla costante minaccia terroristica, Cossiga, in netto contrasto con le posizioni conservatrici di allora, si mostrò fermamente convinto della necessità di ammodernare il vetusto Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, allo scopo di garantire più sicurezza al cittadino. Partendo da un’analisi di natura “tecnocratica” più che politica e sociale – come ha precisato Michele Di Giorgio nel saggio Per una polizia nuova (Viella, 2019) – Cossiga giunse alle stesse conclusioni dei “poliziotti democratici”, riconoscendo la necessità della smilitarizzazione.
In una missiva indirizzata al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, Francesco Cossiga userà nel 1977 parole precise e inequivocabili: “Caro Segretario, […] ritengo mio dovere morale e politico richiamare la tua attenzione sulla necessità che gli organi del partito competenti adottino in tempi brevi definitive e chiare decisioni in ordine al problema della emanazione di misure relative allo stato giuridico della Polizia, all’avvio del suo riordinamento, allo statuto dei diritti politici e di rappresentanza dei suoi membri. È nota la mia posizione favorevole alla istituzione di un Corpo civile di polizia, al riconoscimento di diritti sindacali collegati a forme di rappresentanza istituzionale, con limiti, anche per quanto attiene i diritti politici, richiesti dagli speciali compiti di tutela imparziale dell’ordine pubblico e della sicurezza, all’avvio dell’unificazione tra le varie componenti dell’Amministrazione di pubblica sicurezza, all’unità di direzione e nel coordinamento delle forze dell’ordine”.